Le 2 août 2010, le Festival « Tra le rocce e il cielo » (Vallarsa) a publié sur son site une interview d’Armando Aste, annonçant sa participation à la commémoration de Claudio Barbier organisée le 21 août :
Siamo andati a trovare il grande alpinista Armando Aste (1926) a casa sua, a Rovereto, e gli abbiamo fatto una breve intervista a proposito della sua concezione dell’alpinismo e della sua straordinaria e intensa carriera di scalatore, tra le Dolomiti e la Patagonia.
Lei definisce la fede in Dio l’unica vera ricchezza che possiede: in che rapporto si pone tale fede con l’alpinismo?
Per me l’alpinismo è stato una valvola di sfogo, un mezzo per realizzarmi. Nelle montagne vedo un mezzo di elevazione, qualcosa che aiuta a “far pensieri alti” per dirla in parole povere…
Per lei cosa significa, nel senso più profondo, conquistare la cima di una parete?
La conquista è sempre dentro di noi. Una scalata è sempre un’azione di ordine morale, poi ognuno di noi, con le sue radici, i suoi valori, i suoi compagni di scalata e il suo vissuto, la carica di differenti significati. Per me è sempre stata una ricerca di bellezza, di gioia, un modo per elevarmi, per pensare a ciò che è sopra di noi.
Ha mai vissuto momenti di difficoltà tali da mettere in discussione la sua fede?
No, la mia fede non ha mai vacillato. Sono sempre convinto che quello che faccio, lo posso fare perché Dio me lo concede. Non determina le nostre azioni, ci lascia fare quello che vogliamo fare, in totale libertà, e tutto quello che noi facciamo lo facciamo proprio per questo, perché ci è concesso di poterlo fare.
Cos’è cambiato nell’alpinismo dai suoi tempi? Invidierebbe qualcosa di un alpinista moderno (attrezzatura, possibilità di praticarlo in maniera professionale con preparazione fisica mirata, visibilità ottenibile) o è andato perso qualcosa senza che ci sia stato un contraccambio?
Gli alpinisti di oggi sono figli del loro tempo, come noi lo eravamo del nostro. La storia dell’alpinismo è come una scala, ognuno ci mette il gradino successivo. Non invidio nulla agli alpinisti di oggi, perché se fossi nato sessant’anni dopo avrei usato anch’io gli stessi equipaggiamenti che usano loro e sarei stato figlio di questi tempi, ma non è stato così! Ogni cosa va inquadrata nella sua epoca: era meglio Coppi o Merckx? Ognuno era il migliore nel suo tempo, paragonarli è inutile, oltre che impossibile. Quello che si è perso nell’alpinismo è la poesia, questo si. Siamo nel periodo del tecnicismo puro, senza più nessun tipo di trascendenza, di valori spirituali affiancati all’atto sportivo.
C’è qualcosa che si sente di dover dire agli alpinisti contemporanei, qualcosa che ritiene particolarmente importante, da tenere sempre a mente?
Consigli non posso darne, siamo tutti limitati, unici e irripetibili. La montagna ti insegna chi sei tu, quindi non è possibile dire ad altri chi siano, devono essere loro a scoprirlo. Certo, se uno ha la fede, non ci sono fratture nella storia, mentre se uno rimane attaccato solo alle cose materiali, rimane limitato solo al suo tempo e non può capire quello che lo ha preceduto e quello che lo seguirà.
Ha una preferenza particolare per un grande alpinista della storia? Si è mai ispirato a qualcuno come modello ideale?
Certo, ho avuto molti modelli. Uno dei fari della mia formazione è Hermann Buhl, l’austriaco, anche perché era molto vicino al mio modo di pensare. Era un grandissimo alpinista, avanti vent’anni rispetto ai suoi contemporanei, e poi mi sentivo molto in sintonia con la sua fede. Ho avuto tanti altri modelli, come Armando Biancardi, Spiro Dalla Porta Xydias, Marino Stenico.
Quando e per quale motivo ha deciso di smettere di scalare? Rimpiange qualcosa della sua carriera di alpinista (cime non scalate per motivi non dipendenti da lei, ecc.)?
Ho smesso di scalare nel 1985, quando si è ammalato mio fratello. Colpito da meningite virale, dato per morto, ha vissuto altri 23 anni, e io ho deciso che era molto più importante stare vicino a lui, e poi a mia moglie, che non continuare a scalare. Si deve fare una graduatoria di valori, nella vita. L’alpinismo mi ha dato tanto e mi ha aiutato a realizzarmi, come non avrebbe mai potuto fare il lavoro alla manifattura tabacchi. Ma la prima cosa e più importante è l’amore vero, poi la famiglia, la condivisione con gli altri, tutte cose che vengono molto prima dell’alpinismo. Per quello che riguarda i rimpianti, è inutile pensarci, i desideri sono sempre superiori alle capacità di realizzazione pratica. Se dovessi dirne uno, avrei voluto fare il Cerro Torre. Avevo lasciato tutto il mio materiale da scalata in Patagonia, in attesa dell’estate australe, poi mio fratello si ammalò il 10 di settembre e tutto il mio materiale è rimasto là…
Di tutte le sue conquiste alpinistiche, quali sono quelle che lei giudica più importanti?
Sono stato fortunato, per le mie disponibilità economiche. Ho potuto fare molte meno cose rispetto ai miei contemporanei, ma di grandissima qualità. Forse la prima scalata seria è quella che mi ha dato di più in termini di emozione. Era la cima di Prato Fiorito nel Gruppo di Brenta. Ma la mia prima scalata in assoluto al di fuori delle palestre è stata il Baffelan, qui nelle Piccole Dolomiti, che allora era il non plus ultra, per gli alpinisti della zona, nel 1947. Poi tengo molto alla salita al Campanile Basso, la mia prima cordata, e alle cime della Patagonia. E grazie alle scalate ho potuto conoscere tanti grandi alpinisti e avere rapporti epistolari con loro. Il mio prossimo libro sarà proprio una raccolta di queste lettere, un progetto che ha voluto fortemente mia moglie.
Di Barbier ha un ricordo particolare?
Ho un bellissimo ricordo di Barbier, eravamo in quel periodo entrambi all’apice delle nostre carriere e avevamo anche un riconoscimento internazionale. Ci siamo conosciuti e siamo diventati amici: ho quindici lettere sue nel mio archivio e le conservo con affetto. Abbiamo certo avuto anche dei contrasti: eravamo differenti, sia come estrazione sociale sia come modo di essere. Era un ragazzo che sembrava sempre trasandato, come molti in quel periodo, ma aveva possibilità finanziarie per poter viaggiare e rimanere mesi nei luoghi di scalata. Io no, dovevo prendermi permessi dal lavoro non pagati e rientrando dei soldi solo grazie ai finanziamenti privati del CAI di Monza. È solo grazie a loro, e ai soldi di Fossati Bellani, che sono potuto andare in Patagonia.
Sente come una mancanza il non poter salire più su di una vetta?
Certo, la mia scelta mi è costata, ma quando le ho fatte, le ho fatte anche con gioia. Noi alpinisti siamo tutti degli egoisti. Quando mia madre mi preparava il caffè d’orzo e il pane e lardo per la scalata, non diceva mai nulla, ma si vedeva che era sempre in pena per me, e così anche mio padre che continuava a dirmi “Resta a casa, che è meglio!”. Ma allora non vedevo l’ora di andare. Le cose più importanti si capiscono sempre dopo, quando è troppo tardi…
Oggi qual è il suo rapporto con la montagna?
Oggi vivo di ricordi. E mi danno ancora dei momenti di gioia, tutti questi ricordi, ripensando a quello che ho fatto. E poi ci sono i momenti in cui pensi che è un gran peccato morire, perché anche se dall’altra parte c’è Dio che ci aspetta, la vita è sempre una cosa meravigliosa pur con tutte le sue difficoltà!
Armando Aste sarà presente al festival sabato 21 in occasione della giornata in memoria di Claudio Barbier.
Riccardo Rella